di Pietro Orsatti su Left-Avvenimenti - 7 agosto 2009
Dove sono i diari elettronici del magistrato morto a Capaci? Qualcuno potrebbe averli distrutti per cancellare le prove dell’esistenza di apparati deviati dello Stato.
La riapertura dell’inchiesta a Palermo e Caltanissetta sulla trattativa
fra Stato e Cosa nostra e sulle stragi del ’92 costringe a un esercizio
della memoria. Tornando, appunto, a quell’anno terribile. «Questa sera
debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di
voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si
aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni
sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di
Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria,
poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui
mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su
questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che
sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista
Milella, li avevo letti in vita da Giovanni Falcone. Sono proprio
appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno
potessero essere avanzati dei dubbi». Così parlò Paolo Borsellino nel
corso di una manifestazione promossa da MicroMega presso la biblioteca
di Palermo il 25 giugno 1992, poche settimane prima della sua morte. I
diari di Falcone. Anche Giuseppe Ayala, altro pm del maxi processo,
parla di questi scritti sempre nel giugno del 1992. «Aveva un diario,
sul quale scriveva tutto. Tutto era riportato in un dischetto, perché
Falcone scriveva sul computer. Che io sappia, soltanto io, forse una
volta Paolo Borsellino, e probabilmente la moglie di Falcone,
Francesca, eravamo stati messi a conoscenza dell’esistenza del diario.
Non so se il dischetto è stato trovato e, se è stato trovato,
naturalmente sarà stato letto e conosciuto. Nel caso in cui, invece,
non sia stato trovato o sia stato smarrito, si è perduta l’occasione
per ricostruire dalla fonte più autorevole quel che è accaduto intorno
a Giovanni Falcone, dentro e fuori il palazzo di Giustizia di Palermo».
Il procuratore di Caltanissetta dell’epoca, Salvatore Celesti
(diventato in seguito procuratore generale a Palermo), che indagava per
competenza sulla strage di Capaci, in prima battuta negò l’esistenza
dei dischetti, poi ammise in parte l’esistenza dei file: «Sono stati
acquisiti alcuni dischetti nell’abitazione e negli uffici di Falcone,
ora affidati a tecnici per la trascrizione. Il lavoro non è completo,
ed è segreto. Se nei dischetti ci sono episodi privati non saranno da
noi resi pubblici». Talmente segreti che vennero addirittura
cancellati, cosa che in qualche modo già temeva Ayala, come si intuisce
rileggendo con attenzione le sue parole. Cancellati da un portatile
Toshiba, da un’agenda elettronica Casio in via Notarbartolo a Palermo,
dai computer del ministero di Giustizia in via Arenula a Roma. Da chi?
Della vicenda si occupò anche Gioacchino Genchi che testimoniò in
seguito. Ecco cosa dice: «Dopo l’accettazione di questo incarico, in
effetti, ho dovuto rilevare una serie di atteggiamenti estremamente
diversi da parte del ministero dell’Interno - afferma Genchi -. (…)
Tenga conto che io allora rivestivo l’incarico di direttore della Zona
telecomunicazioni (…) e proprio dopo la strage mi era stato dato
l’incarico, per coordinare meglio alcune attività anticrimine, presso
la Criminalpol della Sicilia occidentale di dirigente del Nucleo
anticrimine. Il dirigente dell’epoca, che sicuramente non agiva da solo
perché si vedeva che era portavoce di volontà e decisioni ben più alte,
in effetti non mi ha certamente agevolato in questo lavoro (…); siamo
ritornati con la decodifica dell’agenda, ho ricevuto varie pressioni
(…) fui trasferito, per esigenze di servizio con provvedimento
immediato, (…) dalla Zona telecomunicazioni all’Undicesimo reparto
mobile». Tornando al procuratore Salvatore Celesti, c’è da dire che la
storia, nonostante la sua carriera, lo smentì clamorosamente. Il 23
giugno 1992 il procuratore si lasciò sfuggire una dichiarazione che
all’epoca fece scalpore. Affermò, infatti, che secondo lui sulla strage
di Capaci «non c’è più mistero per quanto riguarda il diario». E
contemporaneamente c’era chi cancellava la memoria del Toshiba,
alterava i dati sui computer al ministero e sottraeva la scheda di
memoria dell’agendina Casio. Il sospetto emerse subito, la conferma,
anche grazie alla perizia di Genchi, arrivò qualche anno dopo. Ma
intanto qualcuno, L’espresso, aveva rivelato parte del contenuto di
questi diari, in particolare i 39 punti di conflitto e di dissidio fra
Giovanni Falcone e il procuratore capo Pietro Giammanco che mise il
magistrato morto a Capaci nella condizione di abbandonare la Procura e
Palermo. Si andava, questo raccontava il settimanale, dalla decisione
di togliere al giudice assassinato la delega per le inchieste di mafia
fino alla controversia che coinvolse Falcone dopo che il nucleo
speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia
degli appalti e che il procuratore capo sottovalutò e sminuì
pubblicamente.
Torniamo a Borsellino e a ciò che disse in quello che è stato il suo
ultimo intervento pubblico prima della strage del 19 luglio 1992 a via
D’Amelio. «Ecco perché forse ripensandoci, quando Caponnetto diceva
“cominciò a morire nel gennaio del 1988” aveva proprio ragione anche
con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per
poter continuare a lavorare». Sembra quasi che oggi si presenti il
conto di quanto avvenuto 17 anni fa. «Quando si parla di trattative, di
presenza in via D’Amelio di uomini dei servizi, di servitori dello
Stato infedeli, di agende rosse e di uffici del Sisde a Castel Utveggio
- spiega Salvatore Borsellino, fratello di Paolo - in realtà si
raccontano cose che già allora erano emerse ma che poi forse sono state
fatte cadere». Come avvenne nel caso delle dichiarazioni del tenente
Carmelo Canale, ex maresciallo dei carabinieri promosso tenente per
meriti speciali e collaboratore di Paolo Borsellino. Nel 1994 rilasciò
dichiarazioni esplosive. Fra le tante, ecco alcune battute indicative
del clima e del personaggio: «Il dottor Falcone era molto agitato,
aveva gli occhi di fuori, parlava con Borsellino. “Caro Paolo, il
responsabile del fallito attentato all’Addaura era Bruno Contrada” (…)
Io rimasi sconvolto e mentre scendevamo le scale chiesi a Borsellino
chi fosse Bruno Contrada. Borsellino mi pregò di non parlare con
nessuno di quell’episodio (…). Nel corso di una conversazione
telefonica Borsellino mi disse che aveva appreso da Falcone
dell’intenzione di Gaspare Mutolo di iniziare a collaborare. Fra le
prime cose che aveva rivelato, Mutolo aveva parlato di episodi di
corruzione inerenti il giudice Domenico Signorino e Bruno Contrada».
Successivamente, nel 1997, Canale, accusato da due pentiti di mafia,
venne processato per associazione esterna, e poi in seguito assolto
(nel 2008 la conferma). Anche sulle sue rivelazioni, e sulla sua
vicenda, ci sono tante ombre, e come tante altre dichiarazioni
dell’epoca tornano attuali. È sempre più evidente che, all’epoca, a
Palermo due uffici dello Stato molto particolari, i Ros del generale
Mario Mori e il Sisde di Bruno Contrada, agissero al limite della
legalità e, a volte - è il caso di Contrada condannato - sfociassero in
vera e propria collaborazione con la criminalità, in una sorta di
continuità. La domanda è, oggi, se i due uffici agissero in concorrenza
e all’oscuro ciascuno di cosa stesse facendo l’altro, oppure se su
distinti punti si muovessero in convergenza. È certo, però, che senza
la loro azione oggi si saprebbe molto di più di quello che avvenne fra
il 1992 e il 1993, anno degli attentati a Firenze, Milano e Roma: i due
anni delle stragi.
Tratto da: Left-Avvenimenti